Andrea Segre: “Un rione è vivo grazie agli abitanti, a chi lo ama e lo vive”

Il regista si oppone alla gentrification che sconvolge il rapporto fra quartiere e persone
(Numero 11 – Bimestre gen-feb 2017 – Pagina 6)

Alcuni mesi fa, il Premio Oscar Paolo Sorrentino si augurava in un’intervista che l’Esquilino diventasse come Monti, un rione attrattore di turisti. La visione di un altro regista, Andrea Segre, è totalmente diversa. L’autore di documentari, come Io sono Li o Fuorirotta, esprime un giudizio negativo, in particolare, contro la gentrification, ovvero, la trasformazione sociale di un quartiere storicamente popolare dove viene ad abitare la classe agiata. Zone come Monti, Testaccio o Trastevere hanno o stanno vivendo questo fenomeno. Ma secondo Segre non è questo modello che l’Esquilino deve inseguire.
Segre, qual è allora la sua visione del rione?
Vivo all’Esquilino da due anni e, pur rendendomi conto dei suoi problemi, credo che piazza Vittorio costituisca una rarità tra le capitali europee, un’area centrale della città dove classi sociali e appartenenze culturali diverse si incontrano e si intrecciano.
Il mio non è un ingenuo entusiasmo per il meltingpot, ma un richiamo critico alla trasformazione delle zone centrali di Roma in luoghi omologati e appiattiti. Non vedo Monti, Testaccio o Trastevere come zone riqualificate, ma luoghi piallati dalla gentrification. Ovviamente ci sono alcune eccezioni, ma il dato di fatto è l’espulsione dei ceti più poveri a favore delle componenti più abbienti della società. Viene sconvolto il rapporto tra quartiere ed abitanti: non si incontrano più vite di persone il cui lavoro e la cui esistenza creano comunità e tessuto sociale, i quartieri diventano un susseguirsi di vinerie, ristorantini, localini tendenzialmente cari, e poco accessibili. Nella sua indubbia crisi di cura, l’Esquilino è ancora vissuto da persone che hanno bisogno del rione e che lo vivono.
La sua visione è molto interessante, ma non crede che l’incuria e l’illegalità diffusa possano creare tensioni all’interno della comunità territoriale?

Vedo anch’io che ci sono persone senza fissa dimora che gironzolano per il rione, ma credo siano una percentuale minoritaria rispetto ai tanti che lavorano. D’altra parte tali presenze ci sono in tutte le metropoli del mondo, perché le città attirano ma nello stesso tempo non accolgono queste persone. Penso che bisognerebbe essere in grado di aprire con loro un dialogo, fornire servizi e strutture di accoglienza e aiutarli. C’è da dire inoltre che la piazza rappresenta un forte momento di transito per tante persone che vanno al mercato, a lavoro, a prendere gli autobus, ed è chiaro che più gente c’è più è facile che si diffonda l’illegalità pronta a sfruttare quelle solitudini e quelle difficoltà per interessi di ben altra natura. L’illegalità va combattuta e non utilizzata per una pulizia omologante. Se c’è qualcuno che spaccia va preso ed arrestato sia esso italiano, bengalese o africano, ma ricordiamoci che lo spaccio c’è anche nei quartieri trendy. Penso che bisognerebbe attivare funzioni di responsabilità anche da parte dei cittadini stranieri, o delle loro comunità, nella verifica e controllo sulle condizioni di lavoro. Perché non ci possono essere, per esempio nel mercato, dove lavorano molti bengalesi, anche ispettori bengalesi? Da che mondo è mondo si sa che lo strumento migliore per creare sicurezza non è l’aumento delle forze dell’ordine (che peraltro a piazza Vittorio ci sono) ma quello di far diventare più vivace il quartiere, per esempio aumentando gli spazi di gioco per i bambini nel giardino. Perché non mettere una rete di pallavolo come mi dice sempre mia figlia?
Quale può essere il ruolo delle amministrazioni locali e delle associazioni presenti nel rione per rivalutarlo senza attuare “una pulizia omologante”?
Oggi purtroppo le amministrazioni locali fanno poco, perché oberate da debiti e senza più soldi, mentre i privati che investono fanno ovviamente il loro tornaconto e non si interessano spesso del bene comune. Esistono altre forme legate al concetto di economia partecipata, di azionariato popolare che si stanno sviluppando in molte città europee. Le associazioni sono abituate a pensare che la loro funzione è quella di stimolo e di pungolo alle amministrazioni perché offrano servizi e finanzino alcuni progetti. Un ruolo nuovo per i cittadini è, invece, quello di sottrarre pezzi di economia ai meccanismi pubblici e privati, creando delle economie di partecipazione finalizzate al bene comune. Non ci può essere solo il commercio a vivacizzare un quartiere: occorre fantasia, pensare a piccole cose utili mettendo in gioco anche i propri soldi. Ad esempio a Montreal, in Canada alcuni cittadini hanno creato uno spazio di noleggio giochi per bambini, come aquiloni, skateboard, giochi da tavola, lego ed altro; ciò ha permesso la creazione di un servizio nuovo e redditizio, favorendo una maggiore socializzazione. Ma bisogna verificare che le idee siano veramente utili e che non rappresentino solo la messa in mostra della nostra sensibilità progressista. Se un progetto non funziona, è chiaro che i cittadini che lo hanno finanziato decideranno di interromperlo e di fare altro.
In questi ultimi mesi, alcuni giovani hanno investito nel rione aprendo attività commerciali di qualità. Come giudica queste esperienze?
Credo che sia positivo. Così si evita la proliferazione dei negozi di outlet o di minimarket tutti uguali, frutto della liberalizzazione delle licenze. Basta che non si arrivi, come detto sopra, ad una moltiplicazione di soli bar e vinerie, e si conservino un po’ di mestieri, di servizi artigianali, attraverso una progettazione degli spazi commerciali nella zona. Altra cosa che andrebbe assolutamente fatta è arrestare l’invasione dei b&b, che distruggono il tessuto sociale.
Si è sempre occupato di marginalità, minoranze etniche e migranti, ricevendo molti riconoscimenti. Non pensa che dalla sua esperienza nel rione ne possa nascere un’idea cinematografica?
L’Esquilino è un posto che affascina e fa immaginare storie. Non potrei più vivere in un posto con un’unica etnia. Quindi magari sì, potrò fare qualcosa.

Paola Romagna, Maria Grazia Sentinelli