Giacomo Leopardi: “Don’t let me be misunderstood!”

Una semplicistica chiave di lettura condiziona da tempo il giudizio complessivo sulla poetica leopardiana
(Numero 25 – Bimestre mag-giu 2019 – Pagina 9)

Anche oggi arriverò in ritardo. Pare sia un brutto vizio degli inguaribili ottimisti, ma in questo caso il 714 proprio non si decide a passare. Sarà una buona mezz’ora ormai che lo aspetto su via Merulana, altezza Largo Leopardi.
…Si comincia a sentire un gran vociare. Forse sarò suggestionato, ma mi pare di sentire dei lamenti che abbiano poco a che vedere con i disservizi del trasporto pubblico locale. Non si dovrebbe ficcare il naso negli affari altrui, ma quel signore un po’ ingobbito mi dà proprio la sensazione d’avere qualcosa da raccontare. Ho gli occhi gonfi di stupore: lui è Giacomo, conte di nobil prosapia, ed ha i suoi natali in Recanati, oggi Marche, fu Stato Pontificio. È risentito, indispettito da quel dire comune che lo vorrebbe cupo, pessimista ed afflitto. Ascoltandolo bene, in effetti, parrebbe tutt’altro.
Un doloroso equivoco.È vittima d’un fraintendimento Giacomo Leopardi (1798-1837), d’un equivoco che incide troppo radicalmente sul giudizio complessivo circa la sua poetica e la sua opera. Quella chiave di lettura oltremodo semplicistica e disinvolta, che vuole ascrivere all’infermità ed alla malattia il suo approdo doloroso ma consapevole al Pessimismo, non può e non deve essere l’unica della quale valersi per avvicinarsi alla magnifica produzione leopardiana. Per la letteratura, del suo secolo e di quelli successivi, Giacomo Leopardi è stato ed è molto altro.
I fervori giovanili.Cresciuto tra i volumi della biblioteca del padre Monaldo, Leopardi trascorse i primi anni donandosi a quello che egli medesimo definì “studio matto e disperatissimo”. Non passò troppo tempo prima che il prodigio fosse notato dai più fervidi intellettuali della sua epoca.
Questi sono gli anni dei fervori giovanili. Ardente nel desiderio di misurarsi con ambienti culturali più vasti, Leopardi pianifica la fuga da Recanati ma fallisce, scoperto dal padre che solo in seguito gli concederà l’agognata libertà, riconoscendogli anche una modesta rendita. Comincia così la peregrinazione che lo porterà prima a Roma, che lo delude profondamente, per poi approdare a Milano e Bologna, abbandonate per i rigori delle stagioni, che ne minavano ulteriormente la salute. Leopardi giunge infine a Firenze, dove è eletto socio dell’Accademia della Crusca e può finalmente confrontarsi coi suoi più illustri contemporanei. Ed è proprio a Firenze che conosce l’amico di una vita, l’esule napoletano Antonio Ranieri.
Siamo ormai oltre il 1830 e la parte più vasta della produzione Leopardiana ha già avuto compimento. Lo Zibaldone, il personalissimo diario del poeta, cominciato nel 1817, ha già raccontato il principio dell’Illusione, quella tensione dell’individuo all’infinito ed all’indefinito che, a dispetto della condizione finita della natura umana, riesce a procurare piacere mediante l’immaginazione. Da qui ha origine proprio la poetica del Vago e dell’Indefinito, che ha il suo culmine nella lirica appartenente ai Canti, L’Infinito (1819). Successive sono le celebri A Silvia, Il Sabato del Villaggio, Il Passero Solitario, Canto Notturno di un Pastore errante dell’Asia e Le Operette Morali. Queste ultime, ventiquattro tra novelle e dialoghi, possono intendersi quale sintesi del pensiero maturato nel corso di tutta la stesura dello Zibaldone. Nell’opera, Leopardi seppe valersi magnificamente del metasemema e dell’allegoria, declinando con una satira alacre le critiche che rivolgeva all’uomo ed alla sua natura, o, più prosaicamente, ai ferventi progressisti del suo “secolo decimonono”.
Un fiore nel deserto.Ormai consunto dalla malattia, Leopardi segue Ranieri a Napoli, dove da Ranieri medesimo e dalla sorella di questi, Paolina, riceve cure amorevolissime. È proprio qui che Leopardi assiste all’eruzione effusiva del Vesuvio. Anacronisticamente, ciò che osservano gli occhi di Giacomo, lo racconta Plinio il Giovane, nel 79 d.C.: “Interim a Vesuvio monte pluribus locis latissimae flammae, altaque incendia relucebant, quorum fulgor et claritas tenebris noctis excitabatur” (i.e.: Frattanto, dal monte Vesuvio, in più luoghi rilucevano vastissime fiamme ed alti incendi, ed il bagliore divampava nelle tenebre della notte). Proprio dalla contemplazione del Vesevo, formidabile sterminator, Leopardi prende le mosse per la composizione de La Ginestra, ovvero Il Fiore del Deserto, sublime poema lirico, che possiamo intendere certamente quale testamento ideologico e spirituale del poeta. La Ginestra infatti, è la perfetta allegoria del pensiero ultimo leopardiano. Questa fiorisce in terre desertiche e desolate, sfidando la Natura “di voler matrigna” e presto o tardi soccomberà al “sotterraneo foco”. Cionondimeno, nella sua ostinazione, diviene prototipo del velato ma dirompente concetto di eroismo leopardiano.
Le ginestre dell’Esquilino. Ed ecco che d’improvviso riecheggiano soavi le Illusioni e gli ardori del giovane Giacomo, che per un momento si lascia alle spalle la sua dolorosa presa di coscienza.
È proprio innanzi all’ineluttabilità del suo destino che nella Ginestra si sublimano il coraggio, la resistenza ma soprattutto la solidarietà tra gli uomini “negli alterni perigli e nelle angosce della guerra comune” stretti “in social catena”. Allora pare davvero cammini ancora tra di noi Leopardi, e tra le pagine delle Operette ritrovo l’eco dei nostri lamenti per i piccoli e grandi fastidi di tutti i giorni, assieme a quella vaga autoironia che abbiamo imparato ad esercitare quando parliamo del nostro Esquilino. Poi, passeggiando per le nostre strade, magari comprando il pane a via Buonarroti oppure un gelato al caffè in via Principe Eugenio, mi accorgo che le ginestre qui fioriscono tutti i giorni e sono tenacissime, soprattutto adesso che la primavera dilaga tra i viali di Roma. Ed anche se non potremo mai annoverare Leopardi nella categoria dei ritardatari, inguaribili ottimisti, illudiamoci e immaginiamocelo anche noi, per un momento, il profumo della Ginestra…Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo!

Francesco Ciamei