Quello che le pietre ci sussurrano

Il pavimento sotto i portici è vivo, ci osserva da anni e sa tutto di noi
(Numero 41 – Bimestre mag-giu 2022 – Pagina 3)

Confesso. Per ben due sere, mentre cucinavo, mi sono autoinflitta su YouTube un’intera ora di registrazione di una commissione del Primo Municipio. Il tema era l’avanzamento dei lavori di restauro dei portici di piazza Vittorio, iniziati qualche mese fa.
Il motivo di questa mia masochistica fascinazione è legato a un particolare aspetto della questione: le informazioni fornite sul bel pavimento bollettonato ‘alla palladiana’. Avrei potuto scegliere una serie su Netflix e invece sono stata rapita dalle parole dell’architetta che relazionava su rilievi e carotaggi. Ho realizzato che di quell’immenso tappeto multicolore di pietra su cui cammino ogni giorno non conoscevo nulla e che invece lui, da un secolo, sta lì e ci osserva. Patisce e resiste alle offese che ogni epoca in modo diverso gli ha inflitto e continua ad infliggergli. Essere suolo pubblico, a Roma poi, non deve essere mai stato indolore.

Un mosaico di memoria

Gli esperti e i ricercatori dell’Università La Sapienza, cui sono state affidate le analisi dello stato di conservazione e le indicazioni per il restauro, si sono invece soffermati su ogni dettaglio di quel mosaico, per cercare di leggerlo, di comprenderlo. Ogni segno e ogni ferita su quelle pietre hanno un senso e raccontano qualcosa sul materiale stesso, perché ogni pietra reagisce in modo diverso al tempo e all’uso, ha una sua specifica attitudine, è viva. Ma quei segni raccontano anche qualcosa su di noi: la loro stratificazione ci restituisce la storia della relazione fra noi cittadini e quello spazio. Quel tappeto multicolore ha imparato a conoscerci bene da quando, nel 1939, è stato realizzato dalle ditte Bessio & Formica e Rimassa. L’ho trovata una prospettiva tremendamente interessante.

Le sue cicatrici sono indizi da interpretare

Per ogni area del pavimento gli esperti hanno identificato le ‘patologie’, antiche o recenti, passaggio fondamentale per poter stabilire le cure. Consunzione e lacune, erosioni, avvallamenti, fratturazioni. Da cosa derivano? Perché in quel punto e non in un altro? Eventi naturali o gesti umani?
In certi casi anche le riparazioni e i rappezzi, fatti durante il secolo scorso, erano così grossolani, parziali e incongrui da richiedere oggi un nuovo intervento. Chi li ha eseguiti? Una ditta incaricata dall’amministrazione? O magari un privato che ha risolto come poteva la questione?
Di fronte agli indizi che sono disseminati in ogni angolo di questa sorta di archivio di pietra si potrebbero aprire tanti interrogativi. Quali eventi hanno generato quelle cicatrici? Il transito continuo dei passanti? Il garzone di un negozio che ha lasciato cadere un oggetto pesante? Un furgone che ha invaso la campata per scaricare dei materiali?
L’uso un po’ brutale di questi portici è un vizio antico, come ci racconta ‘Ladri di biciclette’ (film del 1948): tra le colonne sono allestiti in modo caotico i banchi di pezzi di seconda mano di bici, sono appesi dei tendoni improvvisati o gli espositori di camere d’aria e telai, vengono smontate le ruote e i manubri.
Oggi ci sconcertano, giustamente, gli atti di vandalismo, i mozziconi di sigaretta e le gomme da masticare buttati a terra, la sporcizia e gli angoli trasformati in latrina, ma la maggior parte dei danni più rilevanti risultano precedenti al duemila, quando, ad esempio, le basi delle colonne – che risultano scheggiate in modo profondo in più punti – erano a diretto contatto con la strada.
Sul lato Nord, su cui si stanno concludendo i lavori di restauro, una targa dorata della ditta Imaco Spa incastonata fra le pietre, ricorda che il piano di calpestio del portico di palazzo Koch è stato ripristinato nel 2001. Le origini dei danni, in quella parte, sarebbero dunque da ricondurre agli ultimi vent’anni.

La base coerente di un rione ‘policromatico’

Al di là di questa componente storica, sociologica e quasi crime, resta il fascino estetico e materico di questo pavimento, a cui oggi l’intervento di restauro comincia a rendere giustizia.
La bella resa cromatica è il frutto dell’accostamento di marmette tutte diverse, provenienti da cave italiane, di Carrara o liguri. L’algido marmo bardiglio, il portoro (di un nero denso), il rosso di Verona (dalla carnosa trama nodulare), il rosso Levanto (sanguigno, quasi violaceo), il cipollino (che, nonostante il nome imbarazzante, rivela delle venature maestose, simili all’onda di Hokusai) e il breccia (di color cipria). Un complesso incastro di cromie e forme. Un gioco di chiaroscuri. Nessun’altra pavimentazione sarebbe stata più coerente con l’anima plurale della piazza Vittorio di oggi.
Continuo ad attraversarli ogni giorno, i nostri portici. Ma negli ultimi mesi, mentre il sole esplode attraverso le alte campate umbertine, guardo a terra con più attenzione, cercando di afferrare i sussurri delle sue vecchie eroiche pietre.

Micol Pancaldi