Vittorio Alfieri: libertà, ideali e titanismo

Da questo numero, ospiteremo i contributi di Francesco Ciamei, nipote ed erede del fondatore della nota torrefazione. Appassionato di letteratura, ci accompagnerà per le vie del rione, prendendo spunto dalla toponomastica
(Numero 23 – Bimestre gen-feb 2019 – Pagina 10)

Interrogarsi circa la toponomastica è un vezzo che noi ospiti del Rione XV dovremmo concederci più spesso. Quello che può apparire come un esercizio sterile, fine a se stesso, d’un tratto riesce ad assumere una valenza diversa, consolatoria, se non addirittura esaltante.
In fin dei conti, abbiamo tutti una certa familiarità con le nostre strade intitolate a re, principi, conti e letterati sublimi. Ognuno di questi con una storia particolare, ognuno portatore di un messaggio da decifrare.
Nei momenti liberi mi capita di passeggiare pensoso ed assorto; ecco che, alzando lo sguardo, le vedi solenni, quasi come un monito, le targhe. Alcune pare parlino un italiano arcaico, severo ma pieno di significati.

Un incontro casuale: Vittorio Alfieri. Sono un po’ di fretta e decido di tagliare dietro piazza Dante; ecco che, raggiungendo la via Merulana, sento riecheggiare improvvisamente gli strali del conte Vittorio Amedeo Alfieri, piemontese di Asti, letterato, drammaturgo e filologo immaginifico, vissuto tra il 1749 ed il 1803. Un uomo profondamente inquieto, le cui radici culturali affondavano nel rigore degli studi classici e che, al contempo, seppe essere prodromo dei successivi Romantici. Alfieri, con la sua Opera e le sue traduzioni dei Classici, seppe nobilitare ed elevare la nostra lingua italiana, valendosi di un lirismo e di una sofisticatezza senza precedenti. Tuttavia, immagino meriti d’esser ricordato per ben altro oltre la cosmesi retorica e l’acume formale.
Questi, sin dalle prime fatiche, fu fervente nell’osteggiare le tirannidi che a quel tempo soggiogavano l’Europa e che cominciavano a patire le prime picconate sferrate dai coevi Illuministi. Proprio nei confronti della Rivoluzione francese possiamo rilevare la cifra che caratterizzerà il percorso creativo dell’autore: dapprima, convintamente entusiasta dei moti rivoluzionari, arrivò a mutare radicalmente le sue convinzioni a seguito di un soggiorno a Parigi, durante il quale osservò inorridito alcune devianze e perversioni che avevano corrotto l’originario spirito, sfociando in quello che divenne noto come “Regime del Terrore”. Alfieri, difatti, visse ossessionato dalla ricerca della libertà, che intendeva quale sintesi definitiva dell’eroismo dell’individuo.

Il titanismo. L’eroe alfieriano è proprio quell’entità che sfida l’oppressione, le forze oscure che lo limitano nel suo agire, ricercando un’idea sublime, quasi disperata, di grandezza. Questa tensione verso il superamento del limite, verso l’assoluto, assurge ad un approdo che sarà fondante della prosa alfieriana: il “titanismo”, una chiara derivazione degli studi classici del conte.
I Titani (Τιτάνες) come narra Esiodo nella sua Teogonia, sono sei fratelli – Crono, Iperione, Giapeto, Oceano, Crio e Ceo – generati da Urano, il cielo, e Gea, la terra. Questi personificavano le potenze archetipiche che dominavano il mondo antecedentemente all’avvento degli dei olimpici. Proprio contro questi ultimi, i Titani ingaggiarono una furiosa battaglia, notoriamente la Titanomachia, durata per ben dieci anni, che li vide sconfitti solo dopo l’intervento in favore di Zeus degli Ecatonchiri e dei Ciclopi. Costoro, fratelli dei Titani, furono appositamente liberati dalla segregazione negli Inferi e, per gratitudine, donarono a Zeus la Folgore, che, assieme alla forza brutale degli Ecatonchiri – che, secondo il mito, avevano ben cento mani e cinquanta teste – fu decisiva per sopraffare gli avversari, poi incatenati nella prigione infernale del Tartaro, tra le mura e i cancelli di bronzo costruiti da Poseidone, e sorvegliati sempre dai loro mostruosi fratelli, i Giganti Centimani, Briareo, Cotto e Gige.
Il Titano, dunque, diviene prototipo ideale dell’Eroe: questo, sebbene sfidi sfere altissime e patisca una disfatta definitiva, incarna perfettamente la morale dell’autore che non nutre velleitarie ambizioni di vittoria, ma si compiace ed esalta nella dimensione della battaglia senza sosta. In questo atteggiamento si manifesta prepotentemente l’intimismo che lega Alfieri ai contemporanei tedeschi dello Sturm und Drang, intellettuali protoromantici, Friedrich Schiller e Johann Wolfang von Goethe su tutti, che magnificavano le pulsioni irrazionali ed il Genio artistico, motori immobili capaci di condurre l’Uomo ad ambizioni smisurate.

L’eroismo del quotidiano. A guardar bene, quella dell’Eroe alfieriano è la medesima battaglia che, in finale, ci ritroviamo ad affrontare idealmente ogni giorno per le nostre vie, negozi, uffici e scuole, e che, per quanto possa apparirci aspra, non deve mai cedere il passo all’arrendevolezza ed allo sconforto. A modo nostro e con un pizzico di immaginazione, potremo catapultarci nel sogno titanico, ricercandovi una catarsi dai nostri piccoli e grandi tormenti d’ogni giorno.
Perlomeno questo è quanto mi pare d’aver capito passeggiando per via Alfieri.

Francesco Ciamei