Aiutare i rifugiati a tornare a casa

L’esperienza di Lino Bordin, ex funzionario dell’UNHCR (Alto Commissariato per i Rifugiati), ci aiuta a capire il dramma delle emergenze oggi in atto
(Numero 3 – Bimestre nov-dic 2015 – Pagina 7)

Bordin, cosa le viene in mente di fronte alle immagini degli ultimi sbarchi lei che in passato ha vissuto da vicino gli scenari più cruenti?

Penso alle difficoltà che abbiamo noi Europei, in particolare noi Italiani, a gestire questo fenomeno, sicuramente drammatico e importante, ma in ogni caso gestibile.

Qual è la differenza tra migranti e rifugiati?

Un migrante parte per una scelta personale, spesso legata a ragioni economiche, ma nella sua patria ha sempre una casa in cui può tornare. Un rifugiato non parte spontaneamente ma è costretto a lasciare il suo paese nel quale non può tornare se non a rischio di subire persecuzioni che in molti casi possono portare alla morte.

Può spiegarci brevemente cos’è il diritto di asilo?

È la possibilità di essere protetti se si scappa da guerre o persecuzioni. Per ottenerlo bisogna fare una domanda che sarà vagliata da una commissione. Il richiedente ha diritti specifici: rimanere nel Paese in cui ha fatto la domanda, vivere in istituzioni create ad hoce ricevere aiuti economici. Non ha però il diritto di lavorare. Quando la domanda è accolta si acquisisce lo status di rifugiato e i relativi diritti: a questo punto si può lavorare, permanere e viaggiare nel Paese che ha concesso l’asilo. Si perdono però gli aiuti economici e non si può più rimanere nei centri. A un richiedente asilo viene riconosciuto lo status se dimostra di avere subito delle persecuzioni per motivi religiosi, politici, per appartenenza a particolari gruppi sociali, a causa della sua nazionalità o razza.

L’Italia lo rispetta?

Benché i tempi siano lunghi, l’Italia generalmente rispetta il diritto di asilo.

Lei ha operato anche in Rwanda. Può raccontarci un’esperienza che l’ha particolarmente colpita?

Nell’attuale Congo al confine col Rwanda c’è Goma, una città dal paesaggio bellissimo. Dopo il genocidio in Rwanda del 1994 e la conseguente guerra civile, la popolazione di coloro che avevano perpetrato i massacri, avendo perso la guerra, si ammassò al confine con la cittadina congolese. L’allora dittatore del Congo, Mobutu, aveva chiuso le frontiere. Col nostro intervento (quello dell’ UNHCR, ndr) lo convincemmo a riaprirle. Nella città di Goma, che contava circa 200.000 abitanti, si riversarono 1.200.000 profughi. In due giorni venne quasi completamente disboscata la città e gli immediati dintorni: ai profughi serviva la legna per cucinare. Scoppiò un’epidemia di colera, che in un mese uccise 40.000 persone. Nell’aria si sentiva un odore terribile. Presto, però, riuscimmo a costruire campi di accoglienza con assistenza sanitaria e scolastica. Purtroppo lungo il confine i massacri continuavano e quasi tutte le mattine ci recavamo nella foresta per raccogliere i corpi delle vittime. Inoltre per difendere il raccolto i contadini avevano scavato profondi fossati intorno ai campi coltivati, con all’interno canne di bambù acuminate. Abbiamo dovuto raccogliere molti corpi di profughi caduti in questi fossati.

E un’esperienza che ricorda con piacere?

Ricordo con molta gioia l’indipendenza della Namibia. Nei primi anni ’90 il Sudafrica pose fine all’Apartheid, venne liberato Mandela e anche la Namibia si affrancò dal colonialismo sudafricano. Furono indette le prime elezioni libere del Paese e l’UNHCR lavorò per il rientro in patria di 60.000 profughi. Per rimpatriare tutti occorsero sei settimane. Sul primo aereo atterrato nella Namibia libera, si trovavano i membri del governo in esilio, alcuni da più di trent’anni, accompagnati da me: ormai tra noi c’era un rapporto di amicizia e rispetto molto profondo. Scesi dall’aereo, s’inchinarono a baciare la terra. Rialzatisi, sventolarono la bandiera del Paese ed intonarono un canto di libertà. Al loro canto rispose quello della popolazione namibiana fuori dall’aeroporto. La folla, travolta dalla gioia, sfondò i cordoni dei soldati dell’ONU e ci venne incontro. Ci portarono in città a spalla. Ero l’unico bianco, ma ero considerato un fratello.

Quando ricordo questo episodio sono felice, perché questo è davvero il frutto del mio lavoro: poter far sì che i profughi, i rifugiati, possano tornare nella loro terra. E questo dovrebbe essere anche il compito dell’Europa.

Ha lavorato in Italia. Che impressioni ha tratto dalle nostre istituzioni?

Ho trovato molta disponibilità da parte dei funzionari italiani. Purtroppo ciò che manca è la razionalizzazione dei programmi e dei fondi per i migranti/rifugiati, anche da parte di alcune istituzioni non governative.

Dopo aver girato il mondo ha scelto di vivere a Roma. Come mai proprio all’Esquilino?

Ho scelto l’Esquilino soprattutto per la centralità del rione: da qui posso raggiungere facilmente aeroporti e stazioni, luoghi fondamentali per continuare a viaggiare.

Antonia Niro