Dal Turbigo alla caserma

Chiara Armezzani - n.37 Dal Turbigo alla caserma

L’Italia è una terra piena di enigmi per lo sventurato protagonista del nostro racconto
(Numero 37 – Bimestre set-ott 2021 – Pagina 14)

(prosegue dai numeri 35 e 36 del Cielo sopra Esquilino)

Oh, ci fosse uno che mi aiuta qui per strada! Insomma, mi avevano detto: ‘Vai in Italia che è tutto bello, passa per l’Italia, poi su in Germania o in Belgio. Ah, l’Italia! E le donne italiane! Il cibo fa schifo ma devi passare per l’Italia per forza!’. Tutti a dirmi di ficcarmi dentro quelle cose e venire qua che avrei trovato qualcosa di meglio.
Giù in Africa c’era pure un altro odore, di terra, qua puzzava solo di gas quel sottovia. Non ho più i soldi. Mio nonno diceva che se sei povero e diventi ricco senza sforzi, torni povero nello stesso tempo impiegato per diventare ricco. Ma io gli sforzi pensavo di averli fatti, nonno. Il viaggio a piedi dal villaggio alla costa, il viaggio in mare, il viaggio sul carro con le bestie. La roba dentro che rischiavo di esplodere. Sto qui a duecento metri dal sottovia Turbigo, nudo, con il coso di fuori per via dell’acqua di quel pompiere. Mi ci tengo le mani davanti che qua c’hanno tutti paura. La pancia non mi fa più male, almeno. Ho preso a correre e m’è rimasta solo una scarpa, però, e i pantaloni si sono lacerati perché sono caduto tre volte nella foga di scappare via. E ho perso i soldi che l’Italiano mi ha dato questa mattina. Provo a richiederglieli quando lo rivedo. Sembrava bravo l’Italiano.
Che vuole questa macchina? Non l’ho sentita avvicinarsi. È una macchina blu con una pantera sul lato. Noi in Africa abbiamo quelle vere di pantere. Perché scendono dalla macchina questi due vestiti strani? Sembrano lontanamente l’esercito che ha distrutto il mio villaggio. Io corro ancora nel dubbio. Corro mezzo nudo sull’asfalto. Mi guardo dietro e quei due mi inseguono. C’è un po’ di gente in giro e, guarda te, mi guardano. Provo una sensazione che non conosco. Mi guardano perché scappo o perché sono nudo? Poi inciampo di nuovo e cado di faccia e mi graffio la fronte, e quei due sono su di me. Un tipo dalla parte opposta della strada grida: ‘Non se ne può più di questi, un altro negro fuori dai coglioni. Negro!’
I due dell’esercito – che poi io so leggere poco e mi sembra di leggere sulla loro macchina ferma la scritta ‘polizia’ – mi ammanettano. Grido, ma la loro lingua non la conosco. Le mani dietro alla schiena mi fanno male, le manette stringono e mi manca l’aria. Loro non mi toccano. Non credo di fargli pena. Quello più grosso, mica grosso quanto me, mi tira su. Mi spinge verso la macchina. ‘Come ti chiami’, mi chiede. E io che ne so che vuol dire nella tua lingua di merda, penso.
Nome, name, nome, ripete il grosso in divisa che mi stringe il bicipite. Quel vecchio m’ha strillato negro, e io dico che mi chiamo Negro. Negro. Negro. Ripeto.
Negro ripeto ancora. Vedo i due poliziotti ridere. Uno fa cenno di sì con la testa. Poi mi mettono nella macchina blu e mi passano un telo che mi mettono intorno alle parti basse.
Mi siedo nella macchina. Io non so cosa vogliono da me, cosa devo fare. Parlo nella mia lingua ma loro è come se non mi ascoltassero, forse non capiscono. Vorrei scendere, tornare a casa, ma prima devo parlare con l’Italiano per farmi ridare i soldi. Lui, sicuro, me li ridà, sembra un tipo apposto. Perché mi stanno arrestando? Se questi qui sono come quelli a casa mia, mi tagliano le mani. Ma perché? Stavo solo dormendo sotto al sottovia. Ho strillato un po’ ma mi hanno anche sparato l’acqua addosso. Ho tutti i segni. Eccoli, gli dico nella mia lingua tirando in fuori il petto. Loro non mi guardano. E io strillo di più e loro insistono con lo ‘shhhh-shhh’.
Poco dopo entriamo nel cortile di un palazzo. È pieno di altra gente vestita come loro. Io alzo la voce, uno nel cortile dice ‘Ciao negro’. Gli altri mi ignorano. Ma allora pensano mi chiami Negro davvero.
Dentro all’ufficio sembra di stare in aeroporto da me in Africa, vetri che separano e cose appese ovunque. Poi mi si avvicinano altri due agenti, mi guardano in silenzio. Uno chiede qualcosa, capisco le parole documenti, identity card. Io dico no. Gli dico a voce alta che cosa volete da me, lasciatemi stare. Ma capisco che per loro sono solo suoni perché uno di loro, quello che mi tiene le braccia all’altezza del gomito ben sopra le manette, mi stringe più forte. Io strattono perché mi fa male e lui tira forte e io mi spavento e gli tiro una spallata e tutti loro poi sono subito sopra di me. Mi bloccano, io mi dimeno perché non capisco perché mi stringe, io parlavo solo. Mi dimeno e con un piede sento il ventre morbido di uno con più pancia. Glielo do forte il calcio, mi sa, perché mi arriva dritto uno schiaffo sul viso. Forte, ben assestato, di una mano grossa, ma non come la mia o come quella di mio papà quando mi tirava su. Oh papà sapessi che brutta fine che sto per fare penso. Allora pensando a mio padre ragiono e mi fermo. Resto fermo immobile. E si fermano pure loro. E mi tirano su. Alcuni dicono ‘negro stronzo’ e un’altra dice ‘aiutatelo’ e qualcos’altro, ma capisco solo il suono delle parole. Alcuni sembrano più gentili. Sento la parola ‘Esquilino’, poi la parola ‘casino’.
Poi, calmate le acque, mi mettono a sedere e aspetto. Vedo dalla porta finestra aprirsi il cancello da cui sono entrato. La libertà. Qui si mette male. Mi alzo, mi guardo intorno. Ho le manette ma posso correre. E corro. Come correvo senza scarpe sulla terra della mia terra. Qui il pavimento è duro e io corro. Do una spallata a una donna, per sbaglio, non volevo. Lei cade e con lei cade il cibo che stava mangiando. Ho fame penso. Ma devo correre verso il cancello e scappare.
(prosegue nel numero 38 del Cielo sopra Esquilino)

Andrea Fassi