Er colléra mòribbus

Il colera, il vaiolo e altre epidemie. Un viaggio nel corso dei secoli tra virus e batteri sconosciuti e letali: le emergenze pandemiche che hanno accompagnato i tre millenni della storia di Roma
(Numero 31 – Bimestre giu-lug 2020 – Pagina 9)

Il 21 aprile scorso Roma ha compiuto 2.773 anni. Quasi tre millenni di esistenza in cui la città e i suoi abitanti hanno attraversato tante fasi storiche, di sviluppo e di espansione, alternate a periodi di stagnazione e di declino, vivendo decine e decine di situazioni drammatiche: incendi e alluvioni, carestie e saccheggi, occupazioni e conflitti. Dall’incendio di Nerone del 64 d.C., al sacco di Roma da parte dei Lanzichenecchi nel maggio 1527, dalla grave alluvione del Tevere del 24 dicembre 1598, alla tragica occupazione nazifascista del 1943-1944.
Tra i tantissimi episodi traumatici un posto a sé occupano le emergenze epidemiche per virus più o meno sconosciuti, più o meno devastanti e letali, vissute dai romani nel corso dei secoli.
La peste Antonina (168-190 d.C.). L’epidemia di peste – sembra in realtà sia stato vaiolo – colpì pesantemente la città negli anni dell’impero trionfante, e lo stesso imperatore Lucio Vero ne fu vittima. Apparentemente scomparso, il morbo riapparve dopo alcuni anni più virulento che mai e imperversò nei territori dell’impero per diversi decenni, portando dappertutto morte e devastazione. Si dice con duemila morti al giorno nella sola città di Roma e molti di più – un quarto della popolazione – in tutto il vasto impero. Roma ne uscì talmente indebolita che iniziò allora il lento declino della sua potenza.
La peste del 1656. Un marinaio napoletano, trovandosi casualmente a Roma in una locanda di Trastevere in attesa di imbarco, si ammalò gravemente con febbre alta, emicrania e brividi. Portato al San Giovanni – nell’ospedale gestito dalla Compagnia dei Raccomandati del Salvatore – lunedì 9 giugno 1656, vi morì poco dopo. Ma i sanitari non capirono la gravità della situazione. Quando il sabato successivo i decessi nella locanda trasteverina furono più d’uno, solo allora fu quarantena per Trastevere, estesa poi al vicino ghetto ebraico, con l’Isola Tiberina trasformata in lazzaretto. Per evitare il contagio, il rione al di là del Tevere fu isolato con una palizzata in legno ed il ghetto addirittura sprangato. Zona rossa off-limits dunque, con guardie armate pronte a sparare ai trasgressori e divieto di qualsiasi cerimonia religiosa, in sinagoga e nelle chiese romane, o di altra riunione pubblica. La pestilenza imperversò per nove mesi ancora e, dei circa 100 mila abitanti di Roma, 15 mila – di cui ben 1.600 ebrei – non sopravvissero al morbo.
Il colera del 1835-1837. Inizialmente sbeffeggiata dal Belli nel celebre sonetto “Er colléra mòribbus”, l’epidemia di colera che imperversa in Europa già dal 1835, alla fine del 1836 si sposta dalla Francia del sud in Italia. Nell’estate del 1837 colpisce Napoli – il 14 giugno muore Giacomo Leopardi – e Roma. Nella città dei papi, il 10 luglio viene individuato un focolaio del morbo con una prima vittima del contagio. Altri decessi seguono nel mese di agosto e la città resta ‘senza messe né feste’ per l’epidemia. Il colera miete vittime agevolato dalla scarsa igiene, dalla modesta organizzazione sanitaria, dall’arretratezza della medicina che prescrive come rimedio un abbondante consumo di aglio, combustione di catrame e spargimento dell’ambiente con cloruro di calce e salassi con le sanguisughe. Il 3 novembre 1837 viene dichiarata la fine del contagio mentre si piangono ufficialmente nella sola città di Roma 5.419 morti, ma furono oltre 7 mila i deceduti.
L’influenza spagnola del 1918. Portata dai soldati americani nell’Europa in guerra, l’epidemia fu chiamata ‘spagnola’ solo perché fu la neutrale Spagna a darne notizia – nei mesi del conflitto si censuravano le notizie per non demoralizzare le popolazioni. Manifestatasi nel maggio 1918, dopo un calo nei mesi estivi, l’epidemia in autunno raggiunse il picco con estrema virulenza. Per bloccare il contagio si provvide a rinviare l’apertura delle scuole, chiudere cinema, teatri e locali pubblici, impedendo anche le visite ai malati negli ospedali. Pandemia delle più terribili, annientò un terzo della popolazione mondiale – mezzo milione soltanto in Italia. Roma, con i suoi quasi 600 mila abitanti, ebbe un alto quoziente di mortalità, più delle altre città, forse più di 4 mila morti. Quante furono le vittime della ‘spagnola’ in realtà non si sa. A Roma il morbo si abbatté su una popolazione già provata dalla guerra, che sin dall’inizio – dopo le cosiddette ‘gloriose giornate’ del maggio 1915 – aveva rivelato la sua debolezza socio-economica. Le difficoltà di approvvigionamento avevano poi esasperato le già precarie condizioni di vita inducendo un generale impoverimento. Dopo il picco dell’ottobre 1918, comunque, nel giro di pochi mesi la ‘spagnola’ allentò la morsa del contagio fino a sparire del tutto nel 1920. Nel frattempo, firmato l’armistizio, il 4 novembre 1918 la Grande Guerra era finita. E tra manifestazioni di giubilo e di canti, la vita a Roma riprese nella normalità tanto desiderata, per superare così le devastazioni ed i lutti subiti, senza più guerre, senza più epidemie.

Carmelo G. Severino