Dall’Esquilino alla calda Africa

Molti giovani fuori sede vivono nel nostro rione. Non solo italiani, a volte provengono da luoghi lontani
(Numero 13 – Bimestre mag-giu 2017 – Pagina 15)

Due ragazzi con radici diverse dalle mie hanno deciso di ospitarmi per cena. Jahia e Din vengono dal Nord Africa, amano il nostro Paese e studiano una l’italiano e l’altro architettura. Arrivo alle 19 e 30 perché sono abituati a cenare presto.
La tavola colorata ha al centro dei vasetti con delle spezie, la casa è molto piccola e spoglia. Come tutte le case provvisorie si fatica a puntellarle di ricordi e così ci si contorna di persone per far sembrare lo spazio meno vuoto. Oltre me, infatti, ci sono altri due ragazzi. Porto un vino africano pensando di farli sentire a casa. Mi sorridono dicendomi che la loro casa per ora è qui e che avrei potuto portare una romanella, il che mi fa sorridere.
Un antipasto, la migrazione e il rione. Jahia mi offre del baba ganush: una crema di melanzane con svariati ingredienti tra cui sale, pepe, aglio; mi sembra ci siano del limone e della menta insaporiti ancor di più da una salsa a base di yogurt e spezie. E’ deliziosa e il sapore rotondo mi catapulta subito nelle loro terre lontane.
Din parla molto bene l’italiano. Mi racconta del padre arrivato clandestinamente 11 anni fa per poi regolarizzarsi. Ora lavora in un ristorante a Bari da un signore italiano che l’ha aiutato tanto. Din ci tiene a precisare che grazie al padre si paga gli studi. Jahia amorevolmente lo accarezza. Tutti i ragazzi sono perfettamente integrati: c’è chi lavora e chi studia. Sono più fortunati di molti loro connazionali dice uno di loro. Continuo a inzuppare la mia internazionalissima “pita” nel baba ganush, non posso farne a meno.
“Vi piace l’Esquilino?”, chiedo. Risponde Jahia senza esitazione: “Questo dovrebbe essere il fiore all’occhiello di Roma, l’esempio d’incontro tra culture. Invece della nostra cultura vedete spesso il peggio. Noi della vostra spesso vediamo rabbia. E non resta niente a nessuno”, ha ragione. Penso e finisco lontano: immagino il rione ordinato e pulito. Ricco di centri d’interesse culturali e culinari. Un velo di frustrazione evapora, mischiandosi all’odore di riso con verdure e carne che Din porta a tavola.
Tanti sorrisi tra le spezie. Il riso l’ha cotto Din. Ha fatto solo quello, dice ridendo con i denti bianchi. Il condimento sembra succulento. Carne di agnello, spinaci e pomodori. Qualche cipolla e aglio. Olio, ovviamente, e peperoncino fresco e un cucchiaio di tebel, mi spiega Jahia. Gli amici battono le mani non so se alla cordialità della coppia o al piatto. Non conoscevo il tebel, penso. E’ un composto di aglio, coriandolo, peperoncino e cumino. Una bomba. Lo rifarò a casa alla mia ragazza che, scherzo con Jahia, probabilmente me lo tirerà appresso dato il suo difficile rapporto con le spezie. Ridono e dicono che le donne italiane sono toste. Lo penso anche io. Ma penso sia un argomento difficile da affrontare, così mando giù un bicchiere di vino rosso e l’Africa tutta mi rimane in bocca, un sapore di terra e sole. Osservo gli occhi scuri di Jahia su di me, ha intuito il mio non voler affrontare l’argomento. Uno dei ragazzi si alza e sparecchia.
Un simbolo di amicizia e il ritorno a casa. “E’ ora del dolce e noi avremmo voluto il gelato!” Scherza Jahia. Sorrido e incuriosito sbircio la cucina a vista. Din con uno degli amici impiatta delle porzioni di basboosa. Li conoscevo già: dolci di semolino al sapore di yogurt e mandorle. Non è così semplice prepararli: si mescolano semolino e yogurt con aggiunta di zucchero e lievito per poi colare il composto in uno stampo imburrato. Poi si mette in forno a circa 180 gradi per qualche ora. Si aggiunge a freddo uno sciroppo di zucchero cotto in acqua con del limone. E’ un piatto particolare e, pur non amando i dolci, lo trovo sfizioso. Chiacchieriamo ancora un po’ di dolci e del rione.
Li saluto mentre si accingono a sentire della musica etnica. Vado via mentre i ragazzi insistono affinché resti. Dopo essersi arresi, per far sì che non mi dimentichi di loro mi regalano un piccolo leone africano intagliato nel legno.
Esco su piazza Dante. Fa freddo questa settimana. Ma questi amici dai tratti così diversi dai miei hanno fatto splendere un raggio di luce, riscaldando un angolo dell’Esquilino. Aveva ragione quella ragazza che un giorno quando ero lontano dall’Italia mi disse: “Il mare ha tante onde ma non finisce all’orizzonte, allora andiamo!”.

Andrea Fassi