Giunto in Italia con la prospettiva di un facile arricchimento, il protagonista del nostro racconto ha perso tutto. Stanco e affamato cerca un rifugio e un po’ di ristoro
(Numero 39 – Bimestre gen-feb 2022 – Pagina 14)
(L’ultimo episodio del racconto che prosegue dai numeri 35, 36, 37 e 38 del Cielo sopra Esquilino, anche online su www.cielosopraesquilino.it)
Mi aprono. C’è un po’ di gente dentro. C’è uno striscione e intorno qualche piantina e un sacco di gente diversa da quella normale in giro per strada. Che poi sarò diverso io per loro. Io voglio solo tornare a casa, ora. Ma casa quella giù da me. Mica quella che dovevo comprarmi con i soldi dell’Italiano. Si avvicina uno. Un tipo con un sigaro in bocca, la barba, la faccia stanca, e dice ‘ciao’.
Io dico ciao. Indietreggio. ‘Ciao’ è una delle cinque parole che conosco. Ciao, italiano, barca, fame, casa. Queste sono.
Dice altre cose poi, che non capisco. Tutti gli altri uomini, pure due donne, si avvicinano. Devo scappare devo correre via o vogliono aiutarmi? Non lo so. Al mio paese quando ci si sente minacciati da gruppi di altri paesi, si grida il nome del proprio capo. Se è un capo degno di rispetto il pericolo scompare. E sei accolto come straniero.
La pancia si muove. Ho fame. Si muove come se avessi bolle dentro che salgono e scendono. Da dopo il viaggio con la roba dentro, sento tutto. L’uomo con il sigaro è più vicino. È il capo, ne sono sicuro. Dico che vengo da lontano, che ho perso le mie cose che non capisco la lingua che mi hanno spruzzato l’acqua addosso e che non dormo da giorni. Ma nessuno capisce la mia lingua, lo vedo nei loro occhi.
‘Fame’, dico nella loro di lingua. E mentre lo dico sento dietro di me, fuori dal cancello, fermarsi una macchina. Mi giro. È di nuovo la stessa macchina di prima, blu con la sirena sopra e la pantera di lato, e dentro due tipi vestiti in maniera diversa dagli altri. Il cielo lo intravedo ed è scuro. I due scendono. Io non ci penso su due volte. Li guardo e non ci penso proprio. Inizio a correre nel cortile di questo posto con la gente diversa. Passo vicino a un uomo senza denti che mi sorride, a una donna con gli occhi storti con i capelli che sembrano nidi di uccelli, ad un uomo alto immobile che oscilla. Poi un gigante con la pancia enorme e una cicatrice sull’occhio che grida ‘No!’ in continuazione.
Corro. Dal cortiletto entro all’interno, ci sono libri, ci sono tavoli, sedie e una cucina. E io corro, butto a terra un secchio che quasi cado anche io. Su un tavolo c’è del pane con del formaggio e mentre corro ne prendo un po’, perché se c’è una cosa che ho imparato è che la fame è il bisogno che viene subito alla mente quando si sente e non ti fa capire più niente.
Sento grida dietro di me, supero una signora su una sedia a rotelle e… e non so più dove andare. Ci sono due bagni e il corridoio finisce su un muro con un quadro del mare. Mi volto. I due uomini con i vestiti e pure le pistole sono davanti a me. Il capo di questo posto ha il sigaro in mano e si mette tra me e loro e parla. Parla piano, ma parla tanto. Mi guarda. Guarda il pane e il formaggio che ho in mano, e poi mi guarda negli occhi e sento che mi vuole dire qualcosa di buono. I due uomini vestiti di blu mi ricordano i militari del mio paese vestiti di verde che venivano a violentare le donne. Ma questi due hanno occhi più buoni.
L’uomo con il sigaro dice tre parole una sicuro è ‘help’. Poi una cosa come ‘binario’, poi altro ma non capisco. E se vuole fregarmi? E se vuole solo trovare un modo furbo per consegnarmi? Io ora ho fame e vorrei mangiare e stringere mia madre e sentire l’odore di casa, quello che è inconfondibile. Guardo pane e formaggio ma un uomo mentre mangia è più debole. Resisto.
Devo tornare a casa. Mi lancio di corsa verso il capo e lo investo con tutta la forza che ho. Il sigaro vola in aria e lui cade a terra, e io scivolo barcollo ma mi reggo in piedi e lo supero, ma nella sala, in meno di un pensiero, i due simili ai militari del mio paese mi sono addosso. Mi bloccano le mani e mi buttano a terra e mi mettono dei pezzi di ferro sui polsi. Io mi dimeno come quando si deve espiare una colpa e si mette la schiena sul fuoco. Ma io che colpa ho? Mi dimeno e scalcio, un calcio arriva sulla pancia di uno dei due che poi mi dà uno schiaffo sulla nuca che subito si arroventa. E io mi dimeno ancora di più e riesco a mordere, un morso degno di un leone. Mordo all’altezza dell’avambraccio. Nel mio paese quando sgarri e ti tagliano le mani con il machete puoi scegliere manica lunga o manica corta. Manica lunga ti tagliano all’altezza del polso. Manica corta ti tagliano all’altezza del gomito. Io non voglio mi taglino. Qui non so come funziona, io non ho rubato niente, io voglio solo tornare a casa. Ma stringo la bocca sulla carne di questo uomo che salta all’indietro e si perde un pezzo di pelle mentre il braccio si colora di rosso.
E alzo lo sguardo come posso e vedo la sua furia cieca scagliarsi contro di me, odiarmi e caricare un piede. La vedo la gamba che indietreggia e si alza come quando sulla spiaggia vuoi fare un goal e vuoi tirare il pallone forte, più forte che puoi. Lui sta per colpire e io so che mi colpirà sulla testa. Chiudo gli occhi. Li strizzo. Stringo ancora di più. Delle braccia mi alzano. È l’altro uomo in divisa. Mi trascina verso l’uscita mentre il tipo che ho morso è seduto su una sedia e si tiene il braccio e sanguina un po’. Negli occhi del capo, quello con il sigaro, che si è alzato da terra e ci segue, non vedo rabbia. Forse delusione. Forse una speranza mancata. Forse capisce più di me.
Poco dopo lo vedo nel cortiletto di questo ‘Binario help’, le uniche cose che ho capito, guardarmi andar via da dentro la macchina blu con la pantera disegnata.
In cella fa freddo. Ma la mattina mi tirano fuori. Non capisco. Mi trascinano davanti a una scrivania dove c’è una donna. Mi danno un foglio e una penna e io faccio una ‘X’ dove la donna vestita con la solita divisa mi indica. Non ero mai stato in carcere. Questo più che un carcere sembra una stazione di polizia. Un poliziotto mi porta fuori e mi consegna dei fogli. C’è il sole. Davanti alla stazione che dà su una piccola via c’è il capo con il sigaro che mi sorride e annuisce. Vado verso di lui. Vorrei gridare il nome del mio capo, quello del mio villaggio. Ma non capirebbe. O forse, sì.
Andrea Fassi