Il quartiere che non c’era

Se state leggendo queste righe da Shibuya, Kensington, Georgetown, Marais non fatevi illusioni che non troverete il bello all’Esquilino né al primo né al secondo sguardo. Riflettiamo partendo dalla gentrificazione e da esempi di valorizzazione riuscita dei nostri spazi, come la Casa dell’Architettura, e altri che sono a rischio autonomia, come il Museo degli strumenti musicali
(Numero 53 – Bimestre mag-giu 2024 – Pagina 1,2)

Cosa deve avere un Paese per essere considerato tale? Frank Zappa rispondeva così: deve avere una birra nazionale e una compagnia aerea. Definizione divertente ma davvero troppo semplificata oltre che pericolosa per l’Italia, che a guardar bene non ha né l’una né l’altra.
Riducendo l’indagine potremmo chiederci cosa deve avere un quartiere per essere definito quartiere o, meglio ancora, un buon quartiere. Dovrebbe essere un pezzo di città contraddistinto da un suo carattere, una sua cultura, una sua comunità, una sua identità. Dovrebbe anche possedere alcuni fondamentali: una gamma di servizi e infrastrutture che migliorino la qualità della vita, scuole, mercati, farmacie e altre strutture essenziali nelle vicinanze. Non solo: facile accesso a trasporti pubblici, buoni caffè dove fermarsi a leggere un libro, verde per la delizia di grandi e piccini. E ancora: trattorie, librerie, panchine dove sedersi a guardare la gente passare.
Un quartiere è un luogo sicuro dove tornare, un luogo familiare dove ritrovare affetti ed abitudini. Basta questo?

È arrivata la gentrificazione. Anzi no

No. Deve essere un luogo aperto a coloro che vogliano entrare a far parte della comunità o addirittura aperto a chi voglia modificarne il tessuto sociale con nuove culture, nuovi odori, nuovi colori. Se queste sono definizioni accettabili, cerchiamo tra i quartieri di Roma quelli che abbiano tutte queste caratteristiche. Testaccio ne ha moltissime, Prati ne ha alcune, Trieste-Africano di più, Trastevere tante ne aveva, tante ne ha perse. Proseguiamo il gioco, scovando l’essenza, in ordine sparso, di Garbatella, del Quadraro, di Borgo, Parioli, Aventino, Tor Pignattara, Fleming e poi tutti gli altri.
E veniamo quindi all’Esquilino. La sua struttura urbana ha avuto varie e lunghe vicende. Per quanto abbia una storia millenaria è sempre stato considerato un sobborgo della città, quella dentro le mura Serviane. Nel tempo Esquilino è stato molte cose, anche una discarica.
Pensiamo quindi alla trasformazione degli ultimi 30 anni. Possiamo definire Esquilino ‘gentrificato’? La gentrificazione è un fenomeno sociale ed economico per cui un quartiere, solitamente urbano e caratterizzato da una bassa affluenza economica, subisce un processo di rinnovamento e trasformazione che porta ad un aumento dei prezzi immobiliari, alla sostituzione dei residenti di basso reddito con altri di classe medio-alta o alta, e all’insediamento di nuove attività commerciali più lussuose. Sarebbe ingeneroso e superficiale definire Esquilino gentrificato. Il nostro rione non è il Meatpacking district di New York, dove il mercato all’ingrosso della carne è stato sostituito dai negozi di Cucinelli e Rolex.

Un quartiere è un luogo sicuro dove tornare,
un luogo familiare dove ritrovare affetti e abitudini

L’Esquilino si muove con altre logiche: non impostate, senza processo, incontrollabili e per certi versi incomprensibili.
C’è stata la migrazione verso l’Esquilino di una borghesia medio-alta, alta, altissima, è vero. Ma questa, finora, non ha espulso alcuno. Mentre da altri quartieri o da altre città persone benestanti si muovevano verso l’Esquilino, altre più povere erano in cammino dall’Uttar Pradesh, da Mardan in Pakistan, dalla Cina, da ovunque. L’Esquilino in passato è stato un luogo quasi indefinito: sobborgo prima e poi passaggio dal centro verso lo sviluppo dell’Appia o della Tuscolana nel dopoguerra.
Oggi invece Esquilino si riscopre essere un vero quartiere, soprattutto dopo gli anni del covid. A voler spuntare la lista fatta all’inizio, infatti, Esquilino è quartiere come quasi nessun altro a Roma. Luogo protetto e aperto, ha una scuola che sa essere anche piazza per tutti, per ricchi intellettuali e per chi cerca ristoro dopo un lungo viaggio. Scuola aperta la sera, e centro ricreativo per ragazzi e adulti di tutte le età.
Ha ritrovato il suo mercato unico e la sua Piazza che si scrive con la ‘P’ maiuscola. Dove altro la comunità Sikh o quella cinese può pensare di festeggiare le proprie ricorrenze?
Esquilino è la casa di tutti, dei sarti africani, di parrucchieri bangladesi, di affittacamere e marinai con 50 piedi ormeggiati al porto. Tutti si sfiorano, sanno toccarsi, parlarsi e mangiare dallo stesso piatto. Succede al Matibag, festa del basket e dei balli di tutte le comunità, festa delle generazioni dove tutti sanno stare assieme. Succede quando gli esquilini si mettono in posa, sotto Natale, per la tradizionale foto di fine anno.

Dopo gli anni del covid,
l’Esquilino si è riscoperto quartiere
come quasi nessun altro a Roma

Se state leggendo queste righe da Shibuya, da Kensington, da Georgetown, dal Marais non fatevi illusioni, perché non troverete il bello all’Esquilino né al primo né al secondo sguardo. Bisogna avere coraggio e setacciare le pepite con pazienza. Problemi? A non finire! Cose da fare per essere un quartiere dove si vive bene? A non finire!
Esquilino sa essere brutto, sporco e cattivo, baraccapoli senza baracche, senza una biblioteca, con i marciapiedi rotti, l’immondizia tra i piedi e le luci basse o peggio spente.
La lista è lunga, troppo lunga, disarmante, desolante. Le associazioni di genitori, i comitati di cittadini non possono e non devono fare ciò che l’amministrazione deve fare se vuole preservare lo spirito di questa comunità, persone che nel quartiere ci vivono, lo maneggiano con passione, ci impastano il pane che mangiano con gusto dalle proprie mani.

Carlo Di Carlo