L’Africa che non tutti si aspetterebbero

Numero 32 – Bimestre set-ott 2020 – Pagina 6

Lino Bordin – già funzionario dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – è l’autore di un volume che vorrebbe sfatare i pregiudizi che avvolgono uno straordinario continente

Lino Bordin ci accoglie nella sua casa all’Esquilino con il sorriso e la gentilezza che lo hanno contraddistinto durante gli anni da funzionario dell’Unhcr (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), tanto da fargli meritare l’appellativo di ‘signore gentile’ da parte delle popolazioni africane.

Dopo una vita in viaggio, cosa l’ha spinta a mettere per iscritto la sua esperienza lavorativa in Africa?
Le ragioni sono principalmente due. La prima è legata alla speranza di riuscire a trasmettere delle informazioni serie e precise sul continente africano, sfatando i pregiudizi che ancora lo avvolgono. Mi piacerebbe riuscire a infondere nel lettore tutta l’umanità che il continente esprime attraverso i suoi abitanti e la sua natura, nelle molteplici manifestazioni del loro quotidiano. La conoscenza approfondita di certe situazioni allontana la paura del diverso e ci aiuta ad affrontare le problematiche che ne derivano con maggiore preparazione e consapevolezza. La seconda ragione è cercare di far comprendere alle potenze ex e neo-coloniali quanta responsabilità abbiano per le attuali e immutate situazioni politiche, sociali ed economiche del continente. Una presa di coscienza maggiore porterebbe a considerare l’Africa non più come un territorio da sfruttare, ma da aiutare e salvare.

Spesso l’incontro tra culture diverse ha creato incomprensioni e manifestazioni di intolleranza. Secondo lei è possibile far convivere diverse culture in modo pacifico e nel rispetto reciproco? E in che modo?
Secondo me è possibile: tutti dovrebbero avere la possibilità di vivere decentemente sotto lo stesso cielo, godere degli stessi diritti e doveri, e poter programmare un futuro. Dovremmo distribuire la ricchezza in modo tale che anche i più disperati ne possano godere. Occorrerebbero delle gestioni particolarmente attente all’educazione e alla formazione civica e professionale. Sarà costoso e faticoso, ma essenziale se vogliamo evitare i conflitti sociali e mantenere la pace.

Nel libro racconta che ogni volta che cambiava città, trasformava il giardino di casa in un piccolo angolo di paradiso. Da cosa nasce questa passione e quale di questi ‘giardini africani’ le è rimasto di più nel cuore?
I miei genitori, benché fossero commercianti, possedevano una grossa fattoria. Fin da bambino mi piaceva perdermi tra i campi, commuovendomi di fronte ai miracoli naturali che ad ogni passo incontravo. La creazione di un giardino fiorito nei luoghi in cui ho vissuto in Africa, oltre ad occuparmi piacevolmente mi regalava dei rifugi di bellezza che spesso mancava.
I giardini che più mi sono rimasti nel cuore sono due. Il primo è quello di Belet Weyne, nel quasi deserto al centro della Somalia, ai confini con l’Etiopia. Un vecchietto con l’asino e un carrettino veniva tutte le mattine ad annaffiarlo con l’acqua melmosa del fiume. Le piante, che spesso mi portavo in aereo da Nairobi, crescevano a vista d’occhio.
Il secondo giardino era in Burundi, tra le verdi colline dell’Africa centrale. Lo chiamavano ‘il giardino veneziano’. Sul terreno vuoto avevo posato dei mattoncini rossi che limitavano le aiuole di diversa forma e misura. I costruttori di nuove residenze venivano a prenderne l’ispirazione. Gli sposi novelli venivano a fotografarsi tra i fiori. Eravamo all’Equatore però a 1.500 metri di altitudine. La temperatura si manteneva sui 24/25 gradi durante tutto l’anno. Portavo le piante dai punti più disparati del mondo: le piccole orchidee, che si aprivano a cespuglio dall’ingresso del giardino fino alla porta della casa, provenivano dal tristemente famoso Hotel delle Mille Colline di Kigali, la capitale del Rwanda; la siepe di agapantus bianchi e azzurri proveniva dal giardino comunale di Città del Capo; le splendide rose tra il rosso bordeaux e il viola provenivano dall’aeroporto di Amsterdam. E poi c’erano ibiscus, calle giganti colorate, fiori profumatissimi dello zenzero, campanule rampicanti (Venezia), gigli (Tanzania) e sterlizie(Kenia). Quando al crepuscolo mi sedevo lì assaporando il profumo dello zenzero, il mio spirito si riconciliava non solo con la natura, ma con la stessa vita, malgrado le situazioni infelici oltre il muro di cinta, che avevano accompagnato la mia giornata.

Non solo Africa, ma anche Asia. Ci sarà un nuovo capitolo a raccontare la sua storia?
Ci saranno sicuramente altri capitoli nel prossimo futuro. Alcuni piuttosto sereni, altri dove tutte le forze del male sembra si siano riunite per estrarre agli uomini le loro peggiori perversioni, come sarà per l’Asia, il ritorno in Africa per il genocidio del Rwanda, la lunga esperienza irachena e la Russia, Cecenia compresa.

Antonia Niro